venerdì 20 luglio 2012

Proposta indigesta

Oggi ho ricevuto una quasi offerta di lavoro, e mi sono intristita.


Perché io ho l’ambizione di voler fare un lavoro specializzato –dopo tante peripezie, finalmente ho potuto dare un’occhiata all’elaborazione delle buste paga –e invece le mansioni sono di receptionist.

Perché io ho l’ambizione di fare quel che voglio nella mia vita privata, e invece la premessa, prima ancora di parlare di contratto, durata e compenso, è stata: però niente figli, eh?

Perché io me ne sono andata da un certo posto, visto che ricevevo una paga che equivaleva a nemmeno l’80% del minimo sindacale e che avevo un capo che si arrogava il diritto di trattare male la gente, lanciando anatemi e bestemmie solo perché era girato così,e dovrei – forse, e se si concretizza, e chissà in che modo – tornare proprio dalle stesse persone, sotto altro nome, con diversa partita iva.

Sarebbe infantile pensare che nella vita si cresce e basta. Si può pensare invece, soprattutto in questo periodo di crisi nera, che ci si può, anzi deve accontentare.

Eppure ho compiuto delle scelte, anche non tanto tempo fa (ho rifiutato una proposta di lavoro in dicembre), dettate dall’ambizione: l’ambizione di stare meglio.
Di andare a lavorare contenta, visto che ci si deve passare un terzo della propria vita.
Di vedere riconosciuto il proprio valore, in assoluto e anche, perché no, nei confronti degli altri colleghi, a parole e nella busta paga.
Di essere rispettata come persona, come lavoratrice, e anche come donna e in quanto tale portatrice di utero.
Perché proprio lavorando per quelle persone, cinque anni fa, ho aspettato almeno due anni dall’assunzione per fare un bebè, come richiesto espressamente. E sono stata a casa sette mesi in tutto (nb 5 mesi sono obbligatori). Ho lavorato fino all’8° mese di gravidanza per stare a casa meno possibile. Ho fatto una settimana di assenza per malattia in 4 anni.

E proprio lì, nonostante un contratto part time di 6 ore giornaliere, e un asilo nido scelto (e pagato) fino alle 16.00 proprio per lavorare 6 ore giornaliere, mi è stato detto: c’è crisi, vieni solo al mattino. Pagata solo per le ore lavorate. Ritrovandomi con uno stipendio netto di 550 euro, e una retta dell’asilo di 465.

Ecco, io a queste condizioni non ho più voglia di lavorare. Forse lo dovrò fare, e magari mangiarmi il fegato perché non aspetto due anni per fare un altro figlio (ne ho già 32) e mi tocca sentire il capo che mi urla dei porconi o che fa battute – già una volta l’ho sentito dire, a una cena: bella tua figlia. Però adesso basta. E i presenti hanno riso, maiali.

2 commenti:

  1. Le nostre situazioni lavorative e familiari sono diverse, ma hanno talmente tanti elementi in comune che non so da dove cominciare a commentare.
    Il dover ridurre continuamente le proprie aspirazioni, le aspettative che a scuola ti sembravano così concrete anzi, quasi scontate. Il dover adattarsi e cercare di diventare una wonder woman sempre disponibile: mai malata, mai stanca, mai demotivata succeda quel che succeda; sempre disponibile, flessibile, competente in tutto e pronta a risolverti ogni emergenza (anche se la paghi come la donna delle pulizie); se deve ammalarsi lo fa nel weekend, se proprio deve procreare magari partorisce in agosto, così sfrutta le ferie come maternità, e a proposito di ferie, si sa che per contratto te ne danno uno squinterno, mica le vorrai usare davvero tutte, eh?
    La cosa più brutta è che quando ho letto "ambizione andare a lavorare contenta, visto che ci si deve passare un terzo della propria vita" mi è quasi venuto da ridere, come se fosse una barzelletta :(

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  2. So che certe condizioni non bisognerebbe accettarle, e basta.
    Io non ho mai avuto il coraggio di alzare troppo la voce, perché c'era un capo che a seconda di quel che mangiava a colazione ti trattava di merda, e che poteva prenderti di punta solo perché volevi le ferie pagate, o stare a casa il giorno del patrono, con sarcasmo, urla e quant'altro. Però non va bene, non va bene così.

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